antefatto

 

2759 anni fa. Vicino un corso d’acqua, su un altura al riparo delle esondazioni.

 

Romolo segna sulla terra il perimetro fondativo, limite di demarcazione di quel territorio indistinto, che sottratto agli attraversamenti, vuole essere la Sua città.

Remo lo sfida, oltrepassa il solco, si burla di lui e di quel disegno sulla terra: suo fratello lo raggiunge, lo blocca a terra e l’uccide.

 

l’Architettura è la precipitazione fisica dei poteri su un territorio.

E’ attraverso la morte che si svela la natura di quel limite, come perimetro di un potere che ora può farsi città.

 

E’ possibile leggere la storia dell’architettura come la precipitazione fisica dei poteri su un territorio:

parafrasando Foucault è possibile raccontare la storia politica di un luogo a partire dalla disposizione delle pietre, degli asfalti e degli acciai che lo compongono.

 

 

oltre il 900: dalla città universitaria all’università nella città.

 

I modelli insediativi dell’università, le modalità relazionali che instaura con il territorio metropolitano, il sistema dei varchi e degli accessi che gli impone, i flussi delle percorrenze, la risignificazione dei luoghi che circoscrive, sono le tracce attraverso cui è possibile indagare il mutamento del sistema formativo nella transizione dal fordismo verso quell’economia del simbolico e della conoscenza che mette a valore le facoltà linguistico-cognitive negli attuali processi di produzione materiale e immateriale.


 

in questo paradigma produttivo, le agenzie di formazione acquisiscono un’inedita centralità strategica nei processi di soggettivazione della forza-lavoro. Non solo si moltiplicano e si differenziano, ben oltre il perimetro della tradizione, ma ridisegnano il proprio statuto e la propria operatività:

nel ‘900 alle università era demandato il compito di formare i quadri dirigenti della società di domani; adesso alle diverse strutture viene chiesto di formare differenti soggetti lavorativi a differenti livelli gerarchici, prima pertinenza degli enti di collocamento statali o direttamente delle imprese.

Possiamo così leggere la mutazione che ha investito la geografia dei saperi accademici, secondo le modalità individuate dalla carta di Bologna e dalla riforma universitaria Zecchino-Berlinguer-Moratti, come una risposta sistemica che tenta di interpretare le tendenze emergenti dai nuovi modelli socio-economici.

La rimodulazione dei percorsi formativi, si presenta nel suo insieme come una piattaforma logica, d’indirizzo e di merito, intenzionalmente volta a farsi nodo catalizzatore delle reti produttive, sia a livello locale che globale.

Le lauree di primo e di secondo livello, i dottorati di ricerca, i masters, i corsi professionalizzanti, specialistici o di perfezionamento, i tirocini, gli stages configurano gli anni della formazione universitaria come un sistema per soglie che assume forme ibride a cavallo tra studio e lavoro.


 

Ecco che le sole facoltà non bastano più a raccontare quel mondo della formazione che progressivamente va frantumandosi e disseminandosi in altri luoghi, quelli delle imprese, delle istituzioni pubbliche, delle società del terzo settore, che in regime di partenariato o sotto varie forme di patrocinio, mettono a lavoro la formazione: è rintracciando i segni di queste relazioni sul territorio che è possibile ridisegnare ora la mappa della formazione nelle pieghe della metropoli.

Citando Koolhaas, le università al pari di altre istituzioni accademiche e di cultura diventano “macchine auratiche, macchine capaci sotto la copertura della loro aura di instaurare processi di sfruttamento” dei cervelli che la attraversano coerentemente alle strategie politiche, economiche e relazionali degli atenei stessi. Pensiamo alle forme di tirocinio obbligatorio che possono essere espletate solo presso le strutture accreditate dall’ateneo, o dei masters di facoltà che prevedono stage lavorativi in strutture esterne.

Esempi questi della formazione messa in produzione e dei luoghi dove ciò avviene, che non sono più soltanto le aule universitarie ricche di storie, di lotte, di maestri e di baroni, sedimentate nell’immaginario:

l’università è dappertutto, nei distretti industriali e produttivi, nelle sedi delle cooperative e dell’associazionismo del terzo settore, nelle stanze delle società miste pubblico-privato, negli appartamenti uso ufficio degli studi professionali in un qualsiasi palazzo di una qualsiasi strada. Il soggetto in formazione è lì che lavora al prezzo di enne crediti; cash sonante non ancora sottoposto a processi inflattivi.

 

Le forme dell’università sono ancora quelle del moderno, ma dietro quella facciata si nasconde un altro mondo:

fatto salvo il contenitore, il contenuto è altrove, negli spazi striati della complessità dell’economia della conoscenza ai differenti livelli gerarchici; è in questa lobotomia che il valore simbolico dell’istituzione pubblica viene riutilizzato per la ripetizione di meccanismi di sfruttamento.

 

La mutazione dello statuto delle università trova i suoi indicatori spaziali in una evoluzione che dal distretto formativo e monofunzionale della città universitaria arriva alla forma della università diffusa nelle pieghe del territorio metropolitano.

Le strategie di insediamento vengono mutuate dal mondo della fabbrica e secondo una cronologia che assume le trasformazioni avvenute negli assetti economici e i conflitti prodotti dalle lotte agite dagli studenti dentro e fuori l’università.

 

31 ottobre 1935. Marcello Piacentini direttore generale della pianificazione e dei lavori della città universitaria romana “Università degli Studi d’Italia” invita il duce a tagliare il nastro d’inaugurazione sotto il portico di ordine gigante che da accesso al recinto dell’università. La delegazione politica vestita di nero, il gruppo dei progettisti dietro, Piacentini davanti vestito di bianco, superano il porticato, moderni propilei che danno accesso ai templi del sapere. Si muovono verso piazza delle scienze passando in rassegna gli edifici delle facoltà distribuite lungo i lati; dalle scienze applicate prossime all’ingresso a salire verso il centro della piazza tenuto dalla statua della Minerva che accoglie i pargoli nelle pieghe del mantello. Alle spalle svetta, sulla sommità di una scalinata, il rettorato, affiancato da lettere e filosofia su un lato, da giurisprudenza dall’altro. Guadagnata la cima, la delegazione osserva l’adunata delle schiere di studenti intorno la statua della dea; da destra arrivano quelli di giurisprudenza, da sinistra quelli di lettere, dal fondo marciano quelli delle facoltà del fare.

L’affresco dipinto da questo rituale riflette una volontà di identità che cerca la sovrapposizione della planimetria della città universitaria, con i valori di comunità espressi dalla scultura allegorica della Minerva e la gerarchia sociale che informava questo modello.

 

I mutamenti sociali e le lotte studentesche metteranno a dura prova i luoghi che il potere aveva disegnato, cannibalizzando tutto quell’armamentario di segni e simboli per cui il recinto di un distretto monofunzionale della cultura diventerà le mura di una città da difendere e la statua non più luogo di adunate, ma di assemblee preliminari alla corsa sulla scalinata per la presa del rettorato.

A questa occupazione dei luoghi e dei simboli e alla parallela ristrutturazione dei paradigmi produttivi, questioni che già nel decennio che va dal ‘68 al ‘77 pongono il problema del contenimento della popolazione studentesca, l’istituzione risponderà in prima battuta con la strategia territoriale dell’esodo dalla città.

Il modello preso a riferimento è quello del campus anglosassone; non come brano di città, ma ai suoi margini, lontano dai flussi e dai conflitti, in un territorio vergine che si ritiene da colonizzare. Nascono università come l’Ateneo di Tor Vergata oltre il raccordo anulare romano (1977) o quello de La Bicocca di Milano nel distretto industriale dismesso (1998). Il primo con una popolazione attuale di circa 35.000 studenti che si sposta giornalmente verso la campagna romana; il secondo con una rispettiva di circa 30.000 iscritti tra le macerie del moderno. Se i nomi possono valere da indicatori di strategie, il fatto che la piazza centrale della Bicocca si chiami piazzale delle scienze racconta di una ripetizione degli schemi insediativi e di un farsi comunità che seppur nell’esodo, ricalca le forme novecentesche.

 

Più funzionale alle trasformazioni economiche risultano invece gli atenei di terza generazione, le università diffuse secondo quel modello mutuato dalla crescita urbana descritto da Robert Venturi e Denise Scott Brown in Learning from Las Vegas e in Italia da Bernardo Secchi, che si fonda su una relazione stretta con una o più infrastrutture utilizzate come ossatura per la dispersione sul territorio metropolitano.

Sono i casi dell’ateneo di Roma Tre, distribuito lungo le fermate della metropolitana della linea B e l’asse stradale del tratto urbano della via Ostiense o della ristrutturazione in poli della Università di Bologna lungo la via Emilia, in quella conurbazione metropolitana che ha saldato in un continuum territoriale gli insediamenti legati dalla strada statale.

Mentre l’università romana si configura come un adattamento di una struttura diffusa nei vuoti della città compatta, l’operazione bolognese, denominata Multicampus, si presenta come una rete per poli il cui sfondo non è più la città, ma la regione fattasi metropoli.

Entrambe le esperienze si localizzano in due dei principali laboratori politici del centro sinistra italiano; si rileva la sincronia tra la sperimentazione di un assetto territoriale e il processo di riforma del sistema formativo.

I modelli reticolari in analisi hanno la peculiare caratteristica di svilupparsi a bassi costi di investimenti, perché insistono su aree con un altissimo livello di antropizzazione, che trova, per gli esempi sopra citati, nelle strutture romane già un primo grado di razionalizzazione, siano esse la via consolare dell’Ostiense, dell’Emilia o la centuriazione romana della campagna veneta.

La struttura reticolare permette particolari adattamenti ai contesti territoriali e più direttamente concerne le modalità di indirizzo della ricerca e i metodi della messa in produzione della formazione:

ne è un esempio la riorganizzazione dello I.U.A.V. (istituto autonomo di urbanistica e architettura di Venezia) in distretti universitari dislocati nei centri produttivi del Nord-Est, come il “corso di laurea specialistica in disegno industriale del prodotto” a Treviso o il “corso di laurea in produzione dell’edilizia” a San Donà del Piave.

 

Forme e geometrie degli insediamenti universitari, fotografate nel loro momento fondativo, comunicano ulteriori contenuti se inserite in un discorso per immagini che le pone a confronto con i luoghi della ristrutturazione della fabbrica dal ‘900 ad oggi.

Lo schema planimetrico de La Sapienza è anche quello della fabbrica fordista, dove possiamo sostituire al rettorato, la direzione; alle facoltà tecniche, i padiglioni della produzione; ai propilei d’accesso, i cancelli; alla foto di Tano D’amico dell’occupazione del ’77, quella del picchetto operaio di Elio Petri in “la classe operaia va in paradiso”, c’è perfino lo stesso coupé!

Sta nelle corde dell’architettura moderna riconoscersi in un lessico costruttivo mutuato dai nuovi sistemi di produzione: Walter Gropius, riconosciuto dalla storiografia ufficiale come uno dei padri dell’architettura moderna, disegnerà all’inizio del ‘900, prima la fabbrica modello al Werkbund di Stoccarda, poi la sede dell’Istituto superiore di architettura e arti applicate della Bauhaus a Dessau, utilizzando quel registro linguistico fatto di calcestruzzo, ferro e vetro.

La ristrutturazione della produzione e la rincorsa delle università impiegano le medesime strategie urbanistiche: la declinazione di un modello diffuso, i meccanismi di uso parassitario delle strutture territoriali, dei servizi pubblici presenti e delle reti sociali.

Se è possibile fare delle proporzioni a partire dall’analisi degli insediamenti, allora la Sapienza sta a Mirafiori, tanto quanto il Multicampus sta al sistema Nord-Est della piccola impresa.

 

 

questioni di semiotica

 

La diffusione come paradigma insediativo interroga lo statuto linguistico dell’architettura come strumento per la produzione di luoghi:

lo spazio si faceva luogo, a partire da tre azioni fondative, operate da un gruppo umano o da una comunità, quali recintare, simbolizzare e orientarsi, secondo le categorie che Norberg-Schultz individua in Genius Loci.

Imporre un recinto ad una porzione di terra nella doppia valenza di elemento di misura e coercizione.

Darle senso attraverso l’introduzione di un simbolo.

A questo punto è possibile l’orientamento nel mondo esterno a partire da un legame di identità stabilito con ciò che si è circoscritto e si riconosce come proprio.

Nel passaggio a un modello costruttivo dei luoghi basato sulla dispersione, avviene l’esplosione della triade, schegge di una organicità ormai persa che si conficcano nei tessuti molli della metropoli.

 

Nella deflagrazione, l'impianto planimetrico dell’università dissemina e isola sul terreno residenze, facoltà, mense, teatri e aule polivalenti. I luoghi dell’abitare collettivo, del mangiare insieme, della condivisione del tempo libero e dello scambio dei saperi, con tutta la loro valenza simbolica e di immaginario, si allontanano da quelli dell’apprendimento.

Compiuto l’isolamento delle parti queste non rispondono più soltanto alle logiche di una istituzione chiusa, ma a quelle dell’economia urbana: le aule polivalenti sono inserite nel circuito dell’offerta culturale e di intrattenimento; le residenze nei processi di crescita urbana e valorizzazioni dei suoli; le facoltà nelle trasformazioni di rivalutazione economica di brani della città consolidata.

Si apre la questione di una comunità senza luogo, dispersa secondo le traiettorie disegnate dalle schegge.

La comunità voluta trova una sua ricomposizione dall’alto non più attraverso la costruzione di luoghi fisici, ma di immaginario: una costruzione del consenso che passa per la produzione di eventi.

Gli strumenti non sono più quelli dell’architettura, ma quelli mutuati dalle discipline artistiche come le pratiche dell’effimero, dell’happening e della performance.

Gli indicatori di questi processi si possono riconoscere nella mutazione dei caratteri degli edifici adibiti a facoltà universitarie; scompare l’aula magna come luogo delle manifestazioni corali della facoltà: forma convessa denunciata all’esterno, che scarta da una volumetria composta e stereometrica secondo le definizioni novecentesche del moderno. L’aula magna è annegata nella massa edilizia e privata di una qualsiasi aggettivazione architettonica e iconografica.

I luoghi della condivisione sono presi a prestito dallo spazio pubblico del tessuto urbano circostante. La “piazza” delle rappresentazioni collettive è direttamente quella della metropoli. In questo salto di scala troviamo lo scarto tra un soggetto che da studente si fa abitante della metropoli, non più ancorato solamente alle rivendicazioni interne alle logiche dell’ateneo, ma inserito nei flussi e nella struttura della metropoli.

La natura anfibia dello studente non è più relegata all’ambiente concluso dello stagno, ma immerso direttamente tra le acque vorticose del torrente.

 

Il simbolo, ormai orfano del recinto, scompare nella sua natura problematica di unità iconografica al centro di uno spazio misurato, rappresentazione fisica di un potere riconoscibile che è possibile cannibalizzare, e si riduce a logo al servizio della macchina auratica.

E’ in questa trasposizione di senso che sono possibili le più disparate operazioni di scissione tra significato e significante; esemplare il caso romano dove l’identità fisica del simbolo viene presa in prestito direttamente dall’intorno urbano attraverso l’utilizzo di emergenze architettoniche: la torre stilizzata per l’università di Tor Vergata e la Piramide Cestia per l’ateneo di Roma Tre.

Nel vuoto di significato, creato da un simbolo muto ai soggetti dispersi nei territori dell’università diffusa e nel parallelo recupero in senso antagonista dei luoghi simbolici acquisiti dall’immaginario collettivo, sta la doppia valenza del simbolo:

negato dalle università come sintesi comunitaria, viene riconosciuto dai soggetti sociali lì dove sono sedimentate le storie liberatorie di occupazioni, di assemblee e di lotte; come avvenuto intorno alla Minerva il 25 ottobre 2005, quando gli studenti di tutta Italia si sono dati appuntamento alla Sapienza per partire poi con una grande manifestazione alla volta del Parlamento.

 

Nei processi di superamento del fordismo, l’economia del simbolico e della conoscenza individua nei vuoti lasciati sul territorio dalla massiccia dismissione degli impianti industriali un naturale ambiente da colonizzare. Aree ex-industriali si trasformano in musei, sedi universitarie, aree per la cultura e lo spettacolo: il museo d’arte contemporanea del comune di Roma si stabilisce nei frigoriferi dell’ex Birra Peroni, la sede dei laboratori I.U.A.V. nell’ex cotonificio di Santa Marta a Venezia, Il polo culturale di Torino nel Lingotto FIAT .

A differenza di altri paesi occidentali, in Italia l’occupazione dei luoghi del fordismo non avviene per sostituzione di brani urbani industriali tramite la demolizione e ricostruzione oppure la ristrutturazione e l’addizione; ma attraverso le tecniche del recupero, del restauro e del riuso,senza mettere in campo operazioni di risimbolizzazione.

Questo atteggiamento, che viene anche dalle prescrizioni di un apparato di norme fortemente conservativo, porta con sé lo scollamento tra contenuto e contenitore, tra una compagine architettonica e un programma funzionale che ospita e che non è più rappresentato tramite un linguaggio architettonico.

La mancanza di un investimento simbolico sul piano urbano riproduce un immaginario che parla di ciò che è stato e rinuncia all’affermazione del tempo presente: dietro impaginati fatti di capriate in ferro, stralli e shed, si possono nascondere nuovi usi che non si denunciano all’esterno con aggettivazioni architettoniche contemporanee.

Così, mentre il recupero della centrale elettrica londinese in sede della Tate Modern Gallery, si presenta con l’introduzione di un prisma luminoso a coronamento dell’edificio, che proietta nel cielo la sostituzione delle turbine con le opere d’arte; l’area industriale romana dell’Ostiense, pur alloggiando le sedi universitarie del terzo ateneo romano, segue a produrre un immaginario fatto di macchine, di catena e di ambienti operai, ancorato saldamente alla presenza del gazometro che svetta sul profilo della città.

Tornando al campo di indagine delle sole università, la dispersione, unita allo scollamento tra lo spazio vissuto e la rappresentazione che questo fa di sé, mette in crisi i processi di formazione delle soggettività come le abbiamo conosciute nel ‘900.

 

 

cluster city

 

Un sistema formativo legato agli assetti produttivi e una struttura diffusa capace di colonizzare brani metropolitani dismessi sempre più ampi disegnano una stretta funzionalità ai processi di trasformazione urbana.

L’ipotesi è che gli atenei insieme alle istituzioni per la cultura e lo spettacolo si riconfigurino come potenti motori per la valorizzazione dei suoli, entrando direttamente in meccanismi economici di tipo finanziario, dove le aree prossime agli insediamenti universitari vengono investite da un aumento esponenziale della rendita immobiliare.

In questo nuovo ruolo vengono riconosciuti dall’amministrazione pubblica i potenziali di ingerenza e trasformazione fisica, economica e sociale delle università. Con lo strumento tecnico-giuridico di pianificazione territoriale, il pubblico si fa gestore e garante degli interessi dell’istituzione universitaria; come nel caso della stesura del nuovo piano regolatore romano, dove, sulla carta della città, sono tracciati i confini dei bacini di influenza dei tre atenei pubblici, riserve di caccia per le strategie di crescita e dispersione nella metropoli.

Il caso romano o le modalità di dispersione territoriale dei grandi atenei italiani sull’esempio bolognese, ci raccontano la vittoria di un modello evolutivo di insediamento che assume la metropoli come nuovo paradigma territoriale in grado di riassorbire in sé la dialettica storica tra città e campagna.

 

 

DAL CASTRUM AL CLUSTER

strategie spaziale dell'università